Non è mai troppo presto per un bicchiere di vino. Come non è mai troppo tardi per dare una svolta alla propria giornata. Crecchio, provincia di Chieti, città di partenza della tappa numero 7 del Giro-E 2021. Seduti a un tavolino di un locale di questo bel borgo medievale nell’entroterra, il giallo paglierino del Pecorino d’Abruzzo nel bicchiere, e negli occhi il ricordo di quel volto, impossibile da dimenticare.
Lui è Francesco Moser. Il prossimo 19 giugno compirà 70 anni e oggi si è vestito nuovamente da ciclista (con i colori del Team Banca Mediolanum), perché tra meno di un’ora inforcherà la sua Fantic a pedalata assistita e prenderà il via di questa tappa di 87,9 chilometri quasi interamente lungo la costiera adriatica; destinazione, la città di Termoli.
Il volto una ruga, come se il vento e non la vita lo avesse scolpito; come se fossero, quei segni sulla pelle, le mille mila strade che ha percorso nella sua carriera di corridore straordinario. E gli occhi. Gli occhi del campione, gli occhi di tutti i campioni. Che paiono impassibili, forse spenti, memori di situazioni così intense che l’oggi fatica a tenere loro testa.
Francesco Moser. Al Giro-E mancava: il campione dei campioni.
Dal 1973 all’88 Moser ha ottenuto 273 vittorie da professionista, diventando il ciclista italiano con il maggior numero di vittorie in carniere (Saronni, secondo, è a quota 193). A livello mondiale lo superano solo Eddy Merckx (426) e Rik Van Looy (379). Ha vinto un Giro d’Italia (1984), due Giri di Lombardia, una Milano-Sanremo, un campionato del mondo su pista (1976) e uno su strada (77), tre Parigi-Roubaix consecutivamente. Nel 1984 a Città del Messico ha conquistato il record dell’ora, che da 12 anni apparteneva a Eddy Merckx. È stato il primo a superare i 50 chilometri orari: 51,151. È sceso di sella nel 1988, salendo immediatamente sul piedistallo del mito.
La grandezza di un campione non è data dal numero delle vittorie, ma dal valore degli avversari: concordi?
“Sì. Io ho cominciato a gareggiare quando c’erano Merckx, Gimondi, Fuente, Motta, Bitossi. Assieme a me sono arrivati Battaglin, Baronchelli, poi Saronni, Hinault. All’estero c’erano Maertens, Pollentier, Thurau, tutti corridori che hanno fatto grandi vittorie. Thévenet, per dire, che ha vinto l’unico Tour che ho fatto io, è stato un corridore che comunque ha vinto due Tour de France, era uno che in salita andava forte. Tra gli scalatori spagnoli c’era questo Fuente, che quando decideva di partire, partiva e staccava tutti. Spesso ha spagliato i tempi, nelle sue imprese. Mi ricordo che al Giro d’Italia attaccava sulla prima salita e poi… Il tappone di Bassano, che venivamo dalle Cime di Lavaredo, l’anno che Merckx ha vinto il giro per dodici secondi su Baronchelli, Fuente ha attaccato sulla prima salita. L’abbiamo preso a tre chilometri dall’arrivo. Ha fatto tutta la tappa da solo. Bastava che partisse su un’altra salita e vinceva. Partiva sul Grappa, vinceva la tappa. Sicuro. Invece è andato in fuga tutto il giorno e l’abbiamo preso in fondo alla discesa del Grappa, a tre chilometri dall’arrivo. Era uno scalatore veramente potente, perché quando decideva di attaccare… Mi ricordo che ha vinto una tappa a Sorrento, dove io sono arrivato secondo battendo Merckx in volata, era una tappa di salite, non salitoni, però si faceva il Monte Faito, che era mille metri di dislivello, non era una passeggiata. Le corse erano quelle lì. Se decidi di correre, devi accettare tutti quelli che trovi sulla strada. Non puoi farne a meno. Se vuoi essere riconosciuto come un grande corridore devi confrontarti con i migliori e possibilmente batterli. Non era semplice, ma qualche volta ce l’ho fatta”.
Il ciclismo è fatica. È la sua bellezza e la sua condanna.
“Per fortuna la fatica si dimentica, perché si fa un po’ alla volta e quando vinci o le cose vanno bene te ne dimentichi. Però sai che il giorno dopo ti aspetta di nuovo di correre in salita o in pianura, di rincorrere gli altri o cercare di andare in fuga. Non mi ha mai fatto paura la fatica. Se fosse per la fatica correrei anche adesso”.